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  • Immagine del redattoreALICE CECCHI

Da zero a cento: la storia di Rebecca Busi

Lo scorso anno ha preso parte alla Dakar senza aver mai corso, oggi si sta preparando per la sua seconda volta all'iconico rally raid dopo un anno di successi: Rebecca Busi si è costruita da sola, seguendo i suoi sogni al massimo senza fermarsi mai. Si è raccontata a Racers Behind the Helmet, in una chiacchierata molto amichevole che però ci ha subito fatto capire di che pasta è fatta.



Rebecca Busi è il perfetto esempio di qualcuno che ha un sogno ed è disposto a fare qualsiasi cosa pur di realizzarlo: lo scorso anno è stata la più giovane a prendere parte alla Dakar, dimostrando immediatamente il suo valore. Dopo aver portato a termine il rally raid più famoso al mondo è partita alla volta di altre competizioni, realizzando il suo sogno e ispirando tantissime persone con la sua storia.


Abbiamo avuto l'opportunità di parlare con lei per conoscerla meglio: anche se sembra piccolina ha un carattere che potrebbe spostare gli oceani e le montagne. Rebecca ci ha raccontato il suo percorso e le sue difficoltà nell'essere giovane e sola davanti alle porte del motorsport, in una video call che si è trasformata quasi in una chiacchierata tra amiche: si racconta esitando, pensando bene alle parole da dire ma sempre con il sorriso sulle labbra e il bagliore negli occhi che trasmette tutta la passione che prova per questo sport.



RACERS: Iniziamo dall’inizio: com’è nata la tua passione per il motorsport?


REBECCA: Ce l’ho sempre avuta: mio padre correva con le moto, mio zio faceva i rally normali, quindi è come se ci fossi nata con questa passione. Ho sempre amato le macchine, per farti capire a tutti i miei compleanni c’era sempre qualcosa che c’entrava con i motori! 


Poi sei cresciuta e hai deciso che toccava a te indossare il casco: hai scelto di provarci in prima persona e hai scelto di farlo nei rally raid. Perché il deserto?


Io ho iniziato a guidare in pista coi kart che però mi hanno sempre impedito di gareggiare: dovevo mettermi addosso un sacco di zavorra col fatto che sono molto leggera e mi è sempre stata stretta come cosa. Ho un carattere abbastanza particolare e questi paletti non mi piacciono.


I rally normali invece, dove ho fatto da navigatrice, non mi hanno mai entusiasmato più di tanto, tant’è che in classe, alle elementari, avevo un compagno patitissimo di rally che pensava che anche io mi interessassi alla cosa: in realtà io l’unica cosa che seguo nel motorsport sono la Formula 1 e la Dakar. Era il grandissimo sogno di mio papà e quindi a me piaceva fare quello.


I miei genitori hanno iniziato a portarmi nel deserto all’età di sei anni, è normale che mi piaccia quell’ambiente lì. Mi ha sempre dato l’idea di libertà, di avventura e non credo che ci sia categoria che mi possa rappresentare di più dei rally raid.


Hai deciso di metterti alla prova immediatamente al livello più alto: la prima gara della tua vita è stata la Dakar.


Io mi sono buttata nella Dakar perché anche questo fa parte del mio carattere: parto forte o non parto. Quando mi sono trovata a dover scegliere con quale rally gareggiare avevo di fronte diverse opzioni: o iniziare in Italia, che però non c’entra niente con il deserto, o andare in Spagna, dove sono già un po’ più simili ma meno seguiti.


Iniziando alla mia età, senza trascorsi ed esperienze, o te la giochi tutta o rimane una passione. Io volevo che questo diventasse il mio lavoro e quindi mi sono buttata sulla Dakar. Inizialmente i problemi erano parecchi: non avevo mai messo le ruote sulla sabbia, non avevo mai fatto off-road e, soprattutto, non avevo mai fatto una gara. Dopo che ho convinto mio padre, per niente facile, siamo partiti alla volta del Marocco per allenarmi: quella è stata la mia prima volta con le ruote sulla sabbia in prima persona.


Come hai gestito tutta la pressione della "prima volta"?


Avevo paura ogni tanto. Il primo giorno mi sono fermata che avevo la tachicardia e ho pensato: “Ma io come la faccio una Dakar intera con solo questa esperienza qui?”. La Dakar è stato un continuo imparare: l’ho presa come prima esperienza e quando sono partita nella mia testa c’era solo un obiettivo, finirla. E ci sono riuscita!


Hai tagliato la linea del traguardo ma allo stesso tempo sei partita per la gara più importante: la tua carriera è iniziata.


Correre la Dakar mi ha fatto capire che la categoria migliore da cui iniziare, quella che mi permetteva di imparare ma anche di sbagliare, era quella dei side-by-side.


Mi ha contattato un team di Quarrata che ha sempre fatto cross, una disciplina che nemmeno sapevo esistesse con quelle vetture, e aveva interesse a fare la Dakar. Ci siamo conosciuti, ci siamo piaciuti e abbiamo iniziato quest’avventura che è partita in Tunisia.


Quello è stato il mio primo rally con la macchina che userò poi alla Dakar, il mio primo rally raid vero e proprio insieme a Giulia, la mia nuova navigatrice. Poi sono andata in Grecia, al Rally Greece Offroad, dove mi sono cappottata per la prima volta!


Oh wow! E com'è stato?


In realtà me lo aspettavo il momento dell’incidente, è una di quelle sensazioni che volevo provare prima di partecipare a una gara importante come la Dakar. È come quando vai in kart e non esci mai di pista: vuol dire che non stai spingendo gran che.


Quindi si, aspettavo l’incidente col CanAm, anche se è arrivato nel momento sbagliato: quando sono tornata al campo base mi hanno detto che ero prima. Quindi ho vissuto anche una sconfitta alla Leclerc!



Parlando di karting, in che modo la tua esperienza in pista ha influenzato la tua guida nel deserto?


Non c’entra niente. In pista usi la macchina diversamente, l’unica cosa che ti da è disciplina e resistenza, dato che il kart è molto faticoso. Come stile di guida però è l’opposto: il primo giorno della Dakar avevo ancora il sentore della pista e usavo la macchina nel modo sbagliato. Poi il mio navigatore mi ha detto che se avessi continuato così ci saremmo cappottati, quindi mi sono corretta!


Nel giro di due settimane ti sei ritrovata dall'essere una semplice studentessa con un sogno ad aver concluso la Dakar realizzandolo. Com'è cambiato il modo di vedere il mondo intorno a te?


Questa è una bella domanda, non me l’aveva mai fatta nessuno! Non credo di averci dato troppo peso. Anche sui social ho sempre cercato di essere molto sincera, anche se trovare le parole quando arrivi alla fine non è facile.


È una gara che ti finisce sia emotivamente che fisicamente. Inoltre, all'inizio della Dakar avevo meno di diecimila followers su Instagram, quando l’ho finita ero a 16K e non sapevo minimamente come comportarmi. Non mi sentivo speciale, quindi ho continuato a fare le cose come le facevo prima.


La differenza è che senti un po’ più di ansia: lo sponsor principale che ho trovato mi ha confermato solo due mesi fa, quindi non ero sicura di correre alla Dakar nel 2023 e già mi stavo preoccupando di come dirlo a così tante persone che fanno il tifo per me.


Non so che cosa sia cambiato nella mia testa perchè mi sono trovata dal fare una cosetta, provare a sfidare me stessa per la milionesima volta, ad aver realizzato il mio sogno


Sei diventata un'icona, un'ispirazione per molti. La senti come una responsabilità? Com'è essere donna in un mondo che tutti credono sia fatto per uomini?


Non è stato facile, all’inizio, prima di iscrivermi alla prima Dakar, nessuno ci credeva. Mi piace pensare che io sia arrivata fino a qui per una motivazione più grande, anche perchè quello che sto facendo io non l’ho mai sentito in giro: tutti sono partiti con almeno qualche contatto, con le spalle ben coperte, io invece mi sono costruita da sola.


La mia famiglia il costo di una Dakar non l’avrebbe retto e ho dovuto resistere a così tanti no, a così tante porte chiuse che arrivata a questo momento mi piacerebbe parlarne un po’ di più ma la vedo quasi come un’arma a doppio taglio. Ricevo tantissimi messaggi di persone che hanno visto la mia storia e che hanno mollato il posto di lavoro per andare a cercare qualcos’altro. Io mi sento onorata e quei messaggi li ho tutti salvati nel telefono. 



Tra un rally e un altro sei stata alla 24 ore di Spa, come spettatrice, e in pista con delle Lamborghini. Vedremo mai una Rebecca in griglia di partenza?


No! Non mi piace il mondo del GT. Sono un po’ Niki Lauda, come mi ha detto Daniel Bruhl sul set del film 2win: le cose non le mando a dire e non le lascio a dire, è un carattere particolare che o odi o ami perché non c’è una via di mezzo, anche se sto cercando di migliorarlo. 


Adesso full focus sulla Dakar 2023, con Giulia Maroni al tuo fianco per completare l’unico equipaggio femminile italiano. Sei carica? Ti senti diversa rispetto allo scorso anno?


Mi sento sempre una novellina, tant’è che abbiamo lo sconto rookie anche quest’anno! (ride). Le sensazioni sono sempre le stesse perché cambio macchina e il tipo di gara. Sia io che Giulia siamo preoccupate per la resistenza e per gli inconvenienti. Purtroppo capita solo una volta l’anno, quindi se succede un grande imprevisto non si può far molto. Comunque ci siamo, siamo cariche, siamo convinte e nonostante i miliardi di difficoltà ci siamo quasi e siamo pronte.


Hai lavorato al film 2win, interpretando Fabrizia Pons: cosa si prova ad indossare il casco per interpretare un personaggio tanto importante?


È stato soprannaturale! Stavo finendo il master in International Business e mi mancavano tre esami che ho fatto sparsi ovunque: il primo a Torino proprio prima di andare sul set, l’altro in aeroporto e poi per fortuna avevo una media così alta che il terzo ho potuto tralasciarlo.


Non è stato facile ingranare un po’ tutto ma è stata una bellissima avventura, lo rifarei. Ho conosciuto un sacco di persone fantastiche, da cui ero estremamente affascinata per il lavoro che fanno e che a loro volta erano sbalorditi da quello che è il mio lavoro.




Il tuo motto è “Eat pasta and drive fasta” quindi, qual è la tua pasta preferita?


Sai che non lo so! Sono indecisa tra il pesto e il pomodoro, quello che fa mia nonna.


C'è una canzone che leghi ai ricordi della Dakar?


Ho una playlist che si chiama “Dakar vibes” che ascoltavo nei trasferimenti. La prima canzone è Parachute di Paul Kalkbrenner, che mi ricorda di Paolo Lucci, un mio grande amico che fa il pilota e ha un po’ la mia stessa storia. Entrambi ci siamo costruiti da soli, abbiamo fatto la prima Dakar insieme e ogni mese ci raccontavamo la nostra avventura. Prima di partire per il deserto abbiamo ascoltato questa canzone e l’abbiamo collegata al “realizzare il nostro sogno”. 


Chi è il tuo pilota preferito?


Niki Lauda: voleva guidare perchè era l’unica cosa che sapeva fare e che gli interessava e io mi sento così. Ho due lauree in economia però ho sempre pensato che finché posso seguire le mie passioni devo quantomeno provarci. Lui l’ha sempre preso come lavoro e non è mai stato disposto a rischiare più del dovuto. Era un martello in quello che faceva e secondo me la consistenza batte sempre il talento.



Rebecca ha dimostrato di non avere paura di niente: le sue parole la rappresentano per quella che è, sia con la visiera abbassata che dietro al computer per raccontarsi a me. Un carattere forte, diretto, vero. La Dakar 2023 la sta aspettando e siamo sicuri che ci sarà da divertirsi.



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